Le ultime settimane sono state “calde” non tanto sul versante climatico, quanto su quello dell’attualità: su tutti, i temi vaccini e università hanno avuto grande risalto mediatico.

Lasciando ai più esperti il tema sanitario, diciamo oggi la nostra sul numero chiuso alle facoltà umanistiche.

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È notizia fresca che il TAR di Roma ha accolto, ritenendolo basato su principi di fondatezza, il ricorso portato avanti dall’Unione degli Universitari con cui veniva chiesto che fossero sospesi i test d’ingresso per i corsi di laurea in Lettere, Filosofia, Beni Culturali, Geografia e Storia.

Quindi, libero accesso alle lezioni a tutti gli aspiranti umanisti che hanno presentato la domanda di iscrizione.

Ma come mai si è arrivati a doverne discutere?

Lo scorso maggio, il Senato Accademico di via Festa del Perdono (Università Statale di Milano) ha votato per l’introduzione del numero chiuso nelle facoltà umanistiche, rifacendosi al decreto ministeriale che impone di non sforare il rapporto tra docenti e studenti, dove i primi sono sempre troppo pochi (poiché poche sono le risorse economiche a disposizione) rispetto ai secondi.

Per il rettore di UniMi, l’introduzione del numero chiuso sarebbe stato anche uno strumento per ridurre gli abbandoni e stimolare i più motivati a fare meglio.

I contrari a questo provvedimento (studenti ma anche alcuni docenti) si sono coalizzati e battuti al grido di “università aperta a tutti e per tutti”.

E alle chances occupazionali di tutti questi futuri lavoratori, chi ci pensa?

Fermo restando che riteniamo che la libertà di istruzione e di accesso allo studio siano un sacrosanto diritto per tutti e un dovere da garantire da parte di ogni Stato, ci troviamo a dover fare alcune riflessioni.

Se i giudici hanno ritenuto insensato chiudere l’accesso a facoltà storicamente ad alto tasso di disoccupazione, appare in contraddizione lo “sbarramento” per entrare in facoltà che invece il lavoro, potenzialmente, lo offrono: fisioterapia, matematica, medicina, solo per fare degli esempi, sono facoltà con accesso ristrettissimo (e tortuoso) a fronte di una domanda molto elevata.

Vero è che la mancanza di docenti, di aule, di strumentazioni adeguate…ergo: la scarsità di fondi dedicati all’istruzione è la principale ragione di tali restrizioni ma ormai pare essere diventata l’alibi per qualsiasi disfunzione del sistema…che però in questo caso necessità un’urgente revisione per dare una possibilità ai giovani di garantirsi in futuro un’occupazione dignitosa, che sia frutto dei propri studi, siano essi umanistici o scientifici.

In questa direzione, riteniamo che un ragionevole numero chiuso ai corsi di laurea semplicemente impedirebbe agli studenti peggiori, che abbandonano dopo poche settimane o dilatano molto i tempi di laurea, di affollare le aule e i laboratori oltre la loro capienza, rendendo più difficili la frequenza per i loro colleghi e il lavoro per i docenti…senza ledere a nessuno il diritto allo studio.

 

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